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nei libri Dell arte oratoria ci avvertisce a non lasciarci
portar dalla consuetudine popolare e ci esorta a ridurre il
parlare a certa ed ordinata ragione: perché vedeano nella
plebe poco essere in osservanza la distinzion dell ultime
sillabe e la costruzion gramaticale, che da quella deriva, e
che poi si conservò solo nei libri e si estinse affatto
nell uso, il quale, consumando più le terminazioni ed al-
terando le parole della plebea, produsse la presente, la
quale fu riputata anche essa plebea, sinché il senso italia-
no ritenne l intelligenza della latina, che negli atti forensi,
letterari e nobili si adoperava. Ma perché poi si perdé nel
volgo l intelligenza della latina, colla quale comunicava-
no i popoli negli scritti e negli atti solenni, ed anche la
volgare nell uso del parlare si era cangiata in tanti dialetti
diversi, secondo il genio e pronunzia di ciascuna regione
d Italia, furo i popoli dalla necessità portati a ritener nel-
la memoria la volgar comune e quella negli scritti e negli
atti solenni adoperare, perché se un popolo trattando
coll altro avesse usata ciascuno la sua lingua municipale,
difficilmente, siccome adesso veggiamo, per la varietà
della pronunzia e diversità del dialetto, avrebbero tra lo-
ro potuto comunicare i propri sentimenti.
VI.
Della volgar comune passata in lingua illustre
E si dee credere che la volgar comune si fosse mante-
nuta uniforme in tutte le regioni nelle sole bocche dei
cittadini romani, che per tutto sparsi diffondeano la lin-
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gua della plebe romana, ma non nelle bocche nazionali
di ciascun paese, ove per necessità dovea almeno nella
pronunzia sempre alterata comparire, poiché la diversità
del clima e del temperamento cangia e distingue natu-
ralmente la pronunzia. Onde, come bene considera il
Castelvetro, i Lombardi nati in fredda regione hanno
pronunzia corta, aspra e tronca, e le nazioni più setten-
trionali sono più copiose, di consonanti e di parole mo-
nosillabe, perché hanno i nervi della lingua, per cagion
del freddo, più rigidi e meno pronti, ed in conseguenza
la lingua più restia. I Toscani e Romani, come nati sotto
più temperato cielo, serbano intera la pronunzia, secon-
do la giusta misura. Onde non è maraviglia se essi hanno
meglio che ogni altro l uso della lingua illustre, non solo
nello scrivere ma anche nel favellar comune, ritenuto. I
Napoletani e l resto di quel Regno, che per il tempera-
mento e clima più caldo hanno i nervi più volubili, più
agili e più efficaci, hanno ancor la lingua più lubrica.
Onde siccome prima, quando tra gli altri Greci la dorica
lingua parlavano, così al presente, secondo l indole di
quel dialetto conformato a quel clima, hanno l espres-
sione troppo intensa ed allargan più che gli altri popoli
d Italia le vocali. Quindi l antica volgar comune che nel-
le bocche di differenti italiche nazioni si disciogliea in
tante lingue municipali, e nelle bocche dei Romani, se-
minati per ogni paese, intera, qual nel volgo di Roma, al-
bergava, occupò il luogo della latina, dapoiché l intelli-
genza di essa nel volgo si spense.
In tal maniera quella lingua, la quale era plebea roma-
na, divenne illustre e cortegiana, e fu commessa alla me-
moria ed agli scritti dall uso della corte e del foro, per
organo di commercio comune tra tutti i popoli italiani.
Al che si die forse principio nel decimo secolo, certa-
mente oscuro per cagion della letteratura in Italia quasi
estinta, ma illustre e degno dell aiuto ed immortalità che
danno le lettere per l antico valore nei cuori italiani ri-
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sorto e per l imprese degne di luce. Nel qual tempo le
città d Italia s ordinarono ciascuna in repubbliche, go-
vernate dai consoli e dai tribuni nella forma dell antica
romana. In tale stato non parrà stupore se nelle pubbli-
che concioni chi volea fare da miglior dicitore ed essere
inteso tanto dai cittadini quanto dai forestieri, che ivi
anche per li negozi pubblici convenivano, non potendo
usar la latina, la quale per la rozzezza del secolo non
s intendea né dal popolo né da lui, abbandonasse la sua
municipale ed abbracciasse la romana volgare, molto di
quella più degna e comune all intelligenza di tutti, resa
quindi lingua illustre, perché non più all uso privato po-
polare ma all uso solenne e pubblico s applicava. Onde
col progresso del tempo fu anche ammessa in compa-
gnia della latina al commercio delle Muse, per esprimere
in poetico stile prima gli amori e le cose umili, e poi per
benefizio di Dante anche le cose sublimi, alle quali egli
nel suo poema mirabilmente l estolle.
VII.
Della letteratura provenzale
E furono gl Italiani animati a far uso della volgare nel-
la poesia dall esempio dei Provenzali, appo i quali la
plebea romana, secondo la diversità del lor clima, diver-
samente che in Italia si alterava e proferiva, ed appellata
veniva lingua romanza, come quella nella quale appo lo-
ro i cittadini romani parlavano. In tal favella, fin dal
duodecimo secolo, sotto l imperador Federico I, che an-
che dei suoi poemi volle onorarla, i Provenzali scrissero
le passioni ed eventi amorosi, non solo verseggiando ma
quelle prose anche componendo che gli amorosi avveni-
menti tra dame e cavalieri conteneano, e che per cagione
di questa lingua, tratta dalle bocche romane, romanzi
appo loro, siccome anche oggi appo noi, si dicevano.
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Scrivendo addunque, ad esempio dei Provenzali, gl Ita-
liani in lingua propria volgare, avvenne che molte locu-
zioni e foggie di parlare da quelli traessero, e di simili
colori il volgar nostro spargessero, per quanto ciascuno
dei nostri scrittori si trovava imbevuto di quegli autori
che spesso, come fe in molti sonetti il Petrarca, dai no-
stri scrittori in nostra lingua si traducevano, e per quan-
to si conosceano esercitati in quella lingua, in cui anche
non di rado, siccome fe del suo Tesoro Brunetto Latini,
si provarono a scrivere; sì per essere quella prima d ogni
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